Le somme percepite dal pubblico dipendente a titolo di risarcimento del danno per l’illegittima apposizione del termine di durata al rapporto di lavoro non possono essere sottoposte a tassazione, tenuto conto che il danno risarcibile ai sensi dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 non sarebbe un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro, ma da perdita di chance. È quanto chiarito dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 28 aprile 2021, n. 3429.
La Sezione ha evidenziato che sul piano tributario, al fine di verificare l’assoggettabilità ad imposizione fiscale delle somme dovute dall’Amministrazione datrice di lavoro in favore del proprio dipendente a titolo risarcitorio, occorre avere riguardo al fatto costitutivo dell’obbligazione risarcitoria. La Corte di cassazione (sez. V, ord., 24 settembre 2019, n. 23717) ha affermato che in tema d’imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata degli artt. 6, comma 2, e 46, d.P.R. n. 917 del 1986, si ricava che, al fine di poter negare l’assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro o che tale erogazione, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all’interruzione del rapporto di lavoro.
Con particolare riferimento all’indennità riconosciuta al lavoratore pubblico in caso di illecita reiterazione di contratti di lavoro a termine, inoltre, si è rilevato che in materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile ai sensi dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001 non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c. (Cass. civ., s.l., ord., 14 gennaio 2021, n. 559).
Nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, pertanto, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dall’art. 36, comma 5, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010, n. 183 (oggi art. 28, l. n. 81 del 2015) e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8, l. 15 luglio 1966, n. 604 (Cass. civ., s.l., ord., 14 dicembre 2020, n. 28423). Ne deriva, pertanto, che, assumendo l’importo corrisposto al lavoratore, per effetto dell’abusiva reiterazione di contratti di lavoro a tempo determinato, natura risarcitoria da perdita di chance, come tale estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno ex art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165 del 2001, non sono assoggettabili a tassazione ex art. 6, comma 1, d.P.R. n. 917 del 1986 (Cass. civ., sez. VI, ord., 23 ottobre 2019, n. 27011).