Corte costituzionale, piccoli comuni: vanno escluse le candidature che non assicurano la parità di genere

È incostituzionale la mancata previsione, per i comuni con meno di 5.000 abitanti, dell’esclusione della lista elettorale che non presenti candidati di entrambi i sessi.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 62/2022. La presenza di candidati di entrambi i sessi nelle liste elettorali comunali costituisce una garanzia minima delle pari opportunità di accesso alle cariche elettive.
Quest’obbligo vale anche per i comuni con meno di 5.000 abitanti, ma per essi la disciplina sulla presentazione delle liste elettorali non prevede nessuna sanzione nel caso di violazione. La misura di riequilibrio della rappresentanza di genere nei comuni più piccoli – che rappresentano il 17% della popolazione italiana – è dunque ineffettiva e perciò inadeguata a corrispondere a quanto prescritto dall’articolo 51, primo comma, della Costituzione, secondo cui la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.
Gli articoli 71, comma 3-bis, del Dlgs n. 267 del 2000 e 30, primo comma, lettere d-bis) ed e), del Dpr n. 570 del 1960, relativi alla presentazione delle liste dei candidati nei comuni con meno di 5.000 abitanti, sono quindi incostituzionali nella parte in cui non prevedono rimedi per il caso di liste che non assicurano la rappresentanza di entrambi i sessi. Riscontrato il vulnus, la Corte costituzionale ha ritenuto che l’esclusione delle liste che non rispettino il vincolo costituisca una soluzione costituzionalmente adeguata a porvi rimedi.
Si tratta infatti della soluzione prevista dalla stessa normativa sia per il caso delle liste lesive delle quote minime di genere nei comuni maggiori, sia per quello delle liste con numero inferiore al minimo di candidati negli stessi comuni con meno di 5.000 abitanti. Essa si inserisce dunque coerentemente nel tessuto normativo senza alterarne in particolare il carattere di gradualità in ragione della dimensione dei comuni.

 

Autore: La redazione PERK SOLUTION

Corte Costituzionale, assicurare ai cittadini la possibilità di eleggere i sindaci delle Città metropolitane

L’attuale disciplina sui sindaci delle Città metropolitane è in contrasto con il principio di uguaglianza del voto e pregiudica la responsabilità politica del vertice dell’ente nei confronti degli elettori. Spetta però al Legislatore, e non alla Corte costituzionale, introdurre norme che assicurino ai cittadini la possibilità di eleggere, in via diretta o indiretta, i sindaci delle Città metropolitane.
È quanto si legge nella sentenza n. 240/2021 con cui la Corte costituzionale si è pronunciata sulla riforma degli enti di area vasta varata nel 2014 con la legge Delrio, e sulle corrispondenti norme della Regione Siciliana, secondo cui il sindaco delle Città metropolitane non è una carica elettiva poiché si identifica automaticamente con il sindaco del Comune capoluogo, a differenza del presidente della Provincia, eletto dai sindaci e dai consiglieri comunali del territorio.
Le questioni sollevate dalla Corte d’appello di Catania sono state dichiarate inammissibili perché richiedevano un intervento di sistema, di competenza del Legislatore. La Corte costituzionale ha tuttavia evidenziato come la normativa attualmente vigente «non sia in sintonia con le coordinate ricavabili dal testo costituzionale» circa l’uguaglianza del voto dei cittadini e la responsabilità politica del vertice della Città metropolitana. La necessità di un riassetto normativo del settore, si legge nella sentenza, è dovuta anche al fatto che la mancata abolizione delle Province, a seguito del fallimento del referendum costituzionale del 2016, ha reso «del tutto ingiustificato» il trattamento attualmente riservato agli elettori residenti nella Città metropolitana.

FSC, Non fondate le censure sui tagli ma lo Stato deve individuare i livelli essenziali delle prestazioni

Non è dimostrato che i tagli del Fondo di solidarietà comunale abbiano reso impossibile lo svolgimento delle funzioni attribuite ai comuni. In ogni caso, il ritardo nella definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni rappresenta un ostacolo non solo alla piena realizzazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti i diritti sociali.
È quanto si legge nella sentenza n. 220/2021 con cui la Corte costituzionale, dopo un’accurata istruttoria, ha dichiarato non fondate le questioni proposte dalla Regione Liguria, per conto del Consiglio delle autonomie locali della medesima Regione, poiché non è stato adeguatamente dimostrato che i tagli al Fondo avrebbero ostacolato lo svolgimento delle funzioni dei comuni. La Corte ha osservato che le norme sull’assetto finanziario degli enti territoriali «non possono essere valutate in modo “atomistico”, ma solo nel contesto della manovra complessiva», e che nel caso di specie si deve tener conto anche delle risorse trasferite agli enti locali in relazione all’emergenza epidemiologica da COVID-19.
Al contempo, i giudici costituzionali hanno valutato negativamente il «perdurante ritardo dello Stato nel definire i LEP, i quali, una volta normativamente identificati, indicano la soglia di spesa costituzionalmente necessaria per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale» e rappresentano dunque «un elemento imprescindibile per uno svolgimento leale e trasparente dei rapporti finanziari fra lo Stato e le autonomie territoriali». La definizione dei LEP, oltre a rappresentare un valido strumento per ridurre il contenzioso sulle regolazioni finanziarie fra enti (se non altro, per consentire la dimostrazione della lesività dei tagli subìti), appare particolarmente urgente anche in vista di un’equa ed efficiente allocazione delle ingenti risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).
Nel ricorso si sosteneva anche l’illegittimità dei criteri di riparto del Fondo di solidarietà comunale per la mancata considerazione dell’aggiornamento dei valori
catastali degli immobili. In proposito, la Corte ha osservato che i dati emersi sugli effetti in termini di “shock perequativo” subiti da circa 4100 enti in conseguenza della ridistribuzione del FSC, confermano la presenza di criticità nella distribuzione delle risorse fra i Comuni italiani.
Tali criticità non dipendono dalla norma impugnata, ma rappresentano soprattutto la conseguenza di una situazione di fatto, coincidente con il mancato adeguamento dei valori catastali degli immobili. La lamentata sperequazione, infatti, da un lato discende da questo mancato adeguamento in numerose realtà comunali, che di fatto determina irrazionali differenziazioni, e, dall’altro lato, è amplificata dal carattere meramente orizzontale che aveva assunto il FSC.

Emergenza Covid, legittimo il blocco degli sfratti per morosità, ma non è tollerabile una proroga oltre il 31 dicembre 2021

La proroga del blocco degli sfratti per morosità – disposta dal legislatore in presenza di una situazione eccezionale come la pandemia da COVID-19 – è una misura dal carattere intrinsecamente temporaneo in quanto è destinata ad esaurirsi entro il 31 dicembre 2021, «senza possibilità di ulteriore proroga, avendo la compressione del diritto di proprietà raggiunto il limite massimo di tollerabilità, pur considerando la sua funzione sociale (articolo 42, secondo comma della Costituzione)».
È un passaggio della motivazione della sentenza n. 213/2021 con cui la Corte costituzionale ha riconosciuto la legittimità delle proroghe (dal 1° gennaio al 30 giugno 2021 e poi dal 1° luglio al 31 dicembre 2021) della sospensione dell’esecuzione di alcuni provvedimenti di rilascio di immobili, come anticipato con comunicato stampa del 20 ottobre 2021. In particolare, la Corte ha dichiarato non fondate le censure sollevate dai Giudici dell’esecuzione presso i Tribunali di Trieste e di Savona relative all’articolo 13, comma 13, del decreto-legge 31 dicembre 2020 n. 183 (cosiddetto “milleproroghe”) e all’articolo 40-quater del decreto legge 22 marzo 2021 n. 41 (cosiddetto “sostegni”).
Nella sentenza si legge che, se all’inizio dell’emergenza la sospensione era generalizzata, con le successive proroghe – su cui si appuntavano i dubbi di legittimità costituzionale – il legislatore ne ha via via ridotto l’ambito di applicazione, operando un progressivo e ragionevole aggiustamento del bilanciamento degli interessi e dei diritti in gioco.
Ma la Corte ha soprattutto evidenziato la natura intrinsecamente temporanea della misura e l’impossibilità che venga prorogata oltre la scadenza del 31 dicembre 2021.
Resta ferma, osserva la sentenza, la possibilità per il legislatore, qualora lo richieda l’evolversi dell’emergenza pandemica, di adottare misure diverse da quella della sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio (o di alcuni di essi) e idonee a realizzare un bilanciamento adeguato dei valori costituzionalmente rilevanti che vengono in gioco.

 

Autore: La redazione PERK SOLUTION

Corte Costituzionale: illegittima la sanatoria regionale delle dighe, costruite in violazione dell’autorizzazione paesaggistica

La disciplina delle opere di sbarramento idrico – come le dighe, gli impianti a fini antincendio e per l’innevamento artificiale delle piste da sci – assegnate alle Regioni in base alla loro dimensione, non può prevedere la sanatoria di opere che siano state realizzate in mancanza dell’autorizzazione paesaggistica o in difformità dalla stessa.
Lo ha stabilito la Corte costituzionale con la sentenza n. 201, depositata il 28 ottobre 2021.
La pronuncia, pur ribadendo la competenza delle Regioni in materia di opere di sbarramento idrico di minori dimensioni, con riferimento sia alla loro costruzione che alla vigilanza delle stesse, dichiara l’incostituzionalità – tra gli altri – dell’articolo 11 della legge veneta n. 23/2020. Si tratta della disposizione con cui la regione Veneto aveva consentito ai proprietari o ai gestori di dighe precedentemente «non denunciate» o «realizzate in difformità dai progetti approvati» di regolarizzarle.
La Corte ha ritenuto che questa previsione contrasti con la tutela dell’ambiente perché l’ampio e indistinto riferimento alle opere abusive che essa contiene è idoneo a farvi rientrare anche quelle realizzate in assenza o in violazione dell’autorizzazione paesaggistica, delle quali, quindi, finisce per consentire una “sanatoria”.
Ma la regolarizzazione delle opere sotto il profilo paesaggistico – ha spiegato la Corte – concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ed è perciò riservata alla competenza del legislatore statale, che l’ha consentita nelle sole e tassative ipotesi previste dal codice dei beni culturali.
L’ampliamento di tali ipotesi ad opera della regione Veneto costituisce, pertanto, violazione di un istituto di protezione ambientale uniforme, valido in tutto il territorio nazionale.

Non è incostituzionale la norma del TUEL sull’impignorabilità delle somme di competenza degli enti locali

La Corte costituzionale, con sentenza n. 223 del 23 ottobre 2020, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 159, comma 2 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL), sollevata – in riferimento agli artt. 24 e 117, primo comma della Costituzione – dal Giudice dell’esecuzione del Tribunale ordinario di Napoli Nord nell’ambito di un procedimento di pignoramento presso il terzo tesoriere dell’ente locale esecutato. Il Tribunale rimettente riferisce che il tesoriere dell’ente locale, rendendo la dichiarazione di terzo, ha rappresentato l’esistenza di una deliberazione di quantificazione delle somme sottratte all’esecuzione forzata, adottata ai sensi del comma 3 dell’art. 159 del TUEL e opponibile al creditore procedente. Osserva il Tribunale che il procedimento di cui è investito è fondato su un decreto ingiuntivo, non opposto, avente ad oggetto un credito che «attiene ad una delle finalità protette dalla delibera di impignorabilità», la quale preclude la realizzazione coattiva del credito stesso. In ordine alla non manifesta infondatezza, il medesimo Tribunale premette che il vincolo di impignorabilità previsto dalla disposizione censurata è efficace nei confronti sia dei creditori «ordinari», sia di quelli il cui «diritto trovi “causa” in una delle finalità protette ai sensi dell’art. 159, comma 2, TUEL». Di conseguenza, la norma denunciata, per un verso, finirebbe per contraddire sé stessa, pregiudicando proprio quei creditori alla cui protezione sarebbe preordinata; per l’altro, riserverebbe ingiustificatamente a questi creditori la medesima disciplina dettata per quelli «ordinari», ovvero titolari di crediti che non traggono origine da una prestazione connessa con le finalità di cui al comma 2 dell’art. 159 del TUEL. In buona sostanza, la tesi di incostituzionalità risiederebbe, per il Tribunale, sull’assunto secondo cui lo scopo della impignorabilità prevista dalla disposizione censurata sarebbe quello di tutelare i creditori «qualificati».
Nel merito i giudici costituzionali evidenziano che la norma non è preordinata, in sé, a garantire l’interesse individuale dei singoli creditori «qualificati», ma è essenzialmente rivolta ad assicurare, nel rispetto del complesso delle rigide condizioni, la funzionalità dell’ente locale: in quest’ottica, essa è diretta a evitare che l’aggressione, da qualsiasi creditore provenga, di una riserva essenziale di denaro possa giungere a impedire, fino in ipotesi a determinarne la paralisi, l’espletamento di determinate funzioni istituzionali ritenute dal legislatore essenziali alla vita stessa dell’ente.
La portata complessiva dell’art. 159 del TUEL non è certamente diretta ad accordare un generico privilegio di impignorabilità al pubblico denaro, essendo piuttosto volto a proteggere, sotto rigide condizioni, quanto è necessario per garantire determinate spese, giudicate dal legislatore meritevoli di particolare tutela in quanto coessenziali, in ultima analisi, alla funzionalità e all’esistenza stessa dell’ente locale: a valori quindi che trovano tutela costituzionale nel principio autonomistico. L’art. 159 nel prevedere il divieto di intraprendere procedure di esecuzione e di espropriazione forzata presso soggetti diversi dagli istituti tesorieri degli enti locali, stabilisce, al comma 2, l’impignorabilità, a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio, delle sole somme di denaro di tali enti destinate: a) al pagamento delle retribuzioni dei dipendenti nei tre mesi successivi e al versamento dei connessi oneri previdenziali; b) al pagamento delle rate di mutui e prestiti obbligazionari scadenti nel semestre in corso; c) all’espletamento dei servizi pubblici indispensabili. Tale elencazione deve ritenersi tassativa, dal momento che i limiti alla pignorabilità si traducono in una deroga al principio generale per cui, salve le limitazioni previste dalla legge, ogni debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni, che possono conseguentemente essere espropriati dal creditore per conseguire quanto gli è dovuto, secondo le regole stabilite dal codice di procedura civile (art. 2910, primo comma, cod. civ.).
L’operatività di tali limiti all’esecuzione forzata è gradata, sotto l’aspetto della loro quantificazione, in relazione alle tipologie di spesa: per le retribuzioni dei dipendenti e il versamento dei connessi oneri previdenziali si prevede, infatti, un vincolo temporale trimestrale, che diventa semestrale per le rate di mutui e di prestiti obbligazionari, in modo da garantire la capacità dell’ente di ricorso al credito per soddisfare finalità pubbliche; non si prevede, invece, alcun vincolo temporale in relazione alle spese attinenti all’espletamento dei servizi pubblici indispensabili, proprio a significare la più intensa protezione della specifica missione dell’ente locale nei confronti della comunità di riferimento. L’opponibilità della impignorabilità presuppone l’adozione, da parte dell’organo esecutivo dell’ente locale, di una deliberazione semestrale, che deve essere notificata al tesoriere, di quantificazione preventiva delle somme necessarie alla realizzazione delle finalità pubbliche ritenute essenziali dal legislatore. È del tutto evidente, peraltro, che siffatta quantificazione deve essere improntata ai principi di buon andamento e di imparzialità; non potrà quindi tradursi in deliberazioni che, ad esempio, sottopongano al vincolo d’impignorabilità importi eccedenti quelli necessari per l’attuazione delle suddette finalità o afferenti a prestazioni e servizi a esse estranee. Una volta intervenuta la deliberazione di quantificazione, e sorto così il vincolo di impignorabilità, operano altre rigide condizioni, in quanto l’ente locale non può distogliere le somme necessarie per l’espletamento delle funzioni essenziali utilizzandole per altre finalità, mediante l’emissione di mandati a titoli differenti, se non nel rispetto di un rigoroso ordine cronologico: a seguito della sentenza additiva di questa Corte n. 211 del 2003, infatti, «la impignorabilità delle somme destinate ai fini indicati alle lettere a), b) e c) del comma 2 non opera qualora, dopo la adozione da parte dell’organo esecutivo della deliberazione semestrale di preventiva quantificazione degli importi delle somme destinate alle suddette finalità e la notificazione di essa al soggetto tesoriere dell’ente locale, siano emessi mandati a titoli diversi da quelli vincolati, senza seguire l’ordine cronologico delle fatture così come pervenute per il pagamento o, se non è prescritta fattura, delle deliberazioni di impegno da parte dell’ente stesso.
L’impignorabilità, infatti, è in sostanza destinata a operare allorquando il saldo attivo presso l’istituto tesoriere sia di ammontare inferiore o eguale all’entità delle somme quantificate con la delibera semestrale dell’ente locale. In siffatto contesto, è evidente come l’aggressione individuale, ancorché basata su un credito «qualificato», in quanto maturato in relazione a una delle menzionate finalità, potrebbe comunque condurre alla decurtazione anche significativa o, addirittura, all’azzeramento delle risorse finanziarie dell’ente stesso, così compromettendone la funzionalità.

 

Autore: La redazione PERK SOLUTION