Le opere soggette a vincolo idrogeologico non sono condonabili ove siano in contrasto con il suddetto vincolo, anche se questo sia stato apposto, senza che residui alcun diaframma di discrezionalità in capo all’amministrazione interessata dalla domanda di condono ai fini del suo accoglimento, dovendosi anzi provvedere alla demolizione delle opere abusive. È quanto affermato dal Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 1 settembre 2021, n. 6140.
La Sezione ha preliminarmente ricordato che sotto il profilo urbanistico-edilizio la giurisprudenza ha più volte ricordato che l’autorizzazione rilasciata, anche per silentium, ai sensi dell’art. 97, d.lgs. n. 259 del 2003 assorbe in sé e sintetizza ogni altra autorizzazione, ivi comprese quelle richieste dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante il Testo unico delle disposizioni in materia edilizia (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 16 aprile 2014 n. 1955). Lo stesso art. 87 del citato decreto legislativo del 2003, inoltre, postula che il parere dell’ARPA sia richiesto esclusivamente ai fini della concreta attivazione dell’impianto e non anche ai fini del perfezionamento del titolo abilitativo, perché non sussiste un onere per il richiedente di allegare siffatto parere in sede di presentazione dell’istanza di titolo edilizio, né un obbligo di far pervenire il parere medesimo all’ente procedente entro il termine di novanta giorni di cui al comma 9 dell’art. 87 (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI, 20 agosto 2019 n. 5756 e 12 gennaio 2011 n. 98).
Il Codice delle comunicazioni elettroniche, con riferimento alle infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione, prevede pertanto la confluenza in un solo procedimento di tutte le tematiche rilevanti, con finale rilascio (in forma espressa o tacita) di un titolo abilitativo, qualificato come autorizzazione. La fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica è considerata dal legislatore di preminente interesse generale, oltre che libera (artt. 3 e 86, d.lgs. n. 259 del 2003). L’art. 8, l. 22 febbraio 2001, n. 36, inoltre, nel disciplinare il riparto di competenze tra le Regioni, le Province e i Comuni in materia, stabilisce che i comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici. La Corte Costituzionale, con la sentenza 11 marzo 2003, n. 331, ha chiarito che nell’esercizio dei suoi poteri il comune non può rendere di fatto impossibile la realizzazione di una rete completa di infrastrutture per le telecomunicazioni, trasformando i criteri di individuazione, che pure il comune può fissare, in limitazioni alla localizzazione con regole diverse da quelle previste dalla legge quadro n. 36 del 2001.
La Sezione ha aggiunto che ai fini della controversia sottoposta al suo esame assume rilievo preminente quanto sancito dall’art. 8, comma 6, l. 36 del 2001 alla cui stregua: “I comuni possono adottare un regolamento per assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici”.
La disciplina in oggetto è stata intesa dalla prevalente giurisprudenza (cfr., ad esempio, Cons. Stato, sez. VI 13 marzo 2018 n. 1592) nel senso che alle Regioni ed ai Comuni è consentito – nell’ambito delle proprie e rispettive competenze – individuare criteri localizzativi degli impianti di telefonia mobile (anche espressi sotto forma di divieto) quali ad esempio il divieto di collocare antenne su specifici edifici (ospedali, case di cura ecc.) mentre non è loro consentito introdurre limitazioni alla localizzazione, consistenti in criteri distanziali generici ed eterogenei (prescrizione di distanze minime, da rispettare nell’installazione degli impianti, dal perimetro esterno di edifici destinati ad abitazioni, a luoghi di lavoro o ad attività diverse da quelle specificamente connesse all’esercizio degli impianti stessi, di ospedali, case di cura e di riposo, edifici adibiti al culto, scuole ed asili nido nonché di immobili vincolati ai sensi della legislazione sui beni storico-artistici o individuati come edifici di pregio storico-architettonico, di parchi pubblici, parchi gioco, aree verdi attrezzate ed impianti sportivi).
Con riferimento al cd. terzo condono ha ricordato come la giurisprudenza abbia chiarito (Cons. Stato, sez. VI, 15 luglio 2019 n. 4991) che l’art. 32, d.l. n. 269 del 2003, convertito con modificazioni dalla l. n. 326 del 2003, fissa limiti più stringenti rispetto ai precedenti primo e secondo condono, di cui alle leggi n. 47 del 1985 e 23 dicembre 1994, n. 724, escludendo la possibilità di conseguire il condono nelle zone sottoposte a vincolo paesaggistico qualora sussistano congiuntamente queste due condizioni ostative: a) il vincolo di inedificabilità sia preesistente all’esecuzione delle opere abusive; b) le opere realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo non siano conformi alle norme e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici. In tal caso l’incondonabilità non è superabile nemmeno con il parere positivo dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo, (cfr., in termini, Cons. Stato, sez. IV, 17 settembre 2013 n. 4619).
Pare il caso di soggiungere che il d.l. n. 269 del 2003 disciplina in maniera più restrittiva, rispetto al “primo condono edilizio” di cui alla l. n. 47 del 1985, la fattispecie in questione poiché, con riguardo ai vincoli ivi indicati (tra cui quelli a protezione dei beni paesistici, ma anche quello idrogeologico), preclude la sanatoria sulla base della anteriorità del vincolo senza la previsione procedimentale di alcun parere dell’Autorità ad esso preposta, con ciò collocando l’abuso nella categoria delle opere non suscettibili di sanatoria.
Inoltre, sebbene la presenza di un vincolo idrogeologico non comporti l’inedificabilità assoluta dell’area, la sua presenza impone ai proprietari l’obbligo di conseguire, prima della realizzazione dell’intervento, il rilascio di apposita autorizzazione da parte della competente amministrazione, in aggiunta al titolo abilitativo edilizio (Cons. Stato, sez. V, 24 settembre 2009 n. 43731 e sez. IV, 3 novembre 2008 n. 5467). Per quanto attiene all’interferenza di tale disciplina con quella in materia di condono edilizio, si segnala la formulazione di cui all’art. 32 l. n. 47 del 1985, a mente del quale “il rilascio della concessione o dell’autorizzazione in sanatoria per opere eseguite su aree sottoposte a vincolo è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso”, eccetto i casi in cui si tratti di “opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione e che risultino: a) in difformità dalla legge 2 febbraio 1974, n. 64 e successive modificazioni e dal d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, quando possano essere collaudate secondo il disposto del quarto comma dell’articolo 35; b) in contrasto con le norme urbanistiche che prevedono la destinazione ad edifici pubblici od a spazi pubblici, purché non in contrasto con le previsioni delle varianti di recupero di cui al capo III; c) in contrasto con le norme del decreto ministeriale 1° aprile 1968, n. 1404 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 96 del 13 aprile 1968, e con agli articoli 16, 17 e 18 della legge 13 giugno 1991, n. 190 e successive modificazioni, sempre che le opere stesse non costituiscano minaccia alla sicurezza del traffico”.
Da tale complessiva statuizione deriva che le opere soggette a vincolo idrogeologico non sono condonabili ove siano in contrasto con il suddetto vincolo, anche se questo sia stato apposto (ma non è questo il caso) “successivamente alla presentazione dell’istanza di condono” (Cons. Stato, sez. IV, 21 dicembre 2012, n. 6662), senza che residui alcun diaframma di discrezionalità in capo all’amministrazione interessata dalla domanda di condono ai fini del suo accoglimento, dovendosi anzi provvedere alla demolizione delle opere abusive (Cons. Stato, sez. IV, 14 giugno 2018, n. 3659).
Giova rammentare anche che, anche in base alla normativa intervenuta successivamente in materia di condono edilizio (art. 32, comma 27, lettera d, d.l. n. 269 del 2003, c.d. terzo condono), a conferma di quanto rilevato pocanzi, non sono suscettibili di sanatoria le opere abusive che “siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici”.