Aliquota Iva applicabile ad un appalto per il rifacimento di una piazza

Nell’ambito di un contratto di appalto per il rifacimento di una piazza, qualora le prestazioni abbiano ad oggetto non solo la realizzazione di opere finalizzate all’abbattimento di barriere architettoniche, bensì anche altre tipologie di intervento, l’aliquota ridotta spetta solamente sulla parte del corrispettivo che è dovuto per la realizzazione degli interventi di abbattimento delle barriere, non potendo estendersi all’intera somma richiesta al committente dell’opera, che potrà ragionevolmente includere corrispettivi dovuti a diverso titolo. Pertanto, nel caso di cui venga stipulato un contratto unitario a fronte del quale vengono eseguite opere per l’abbattimento delle barriere architettoniche ed opere diverse dalle precedenti, al fine del riconoscimento del beneficio fiscale dell’aliquota 4 per cento (limitatamente alle prime) è necessario che i corrispettivi vengano distintamente indicati (nel contratto o quanto meno in fattura). In mancanza di tale distinzione, tutto il corrispettivo dovrà essere assoggettato all’aliquota più alta prevista per le singole prestazioni, non potendosi estendere il trattamento agevolato a fattispecie diverse da quelle previste tassativamente dal legislatore. Le opere che possono beneficiare di questa agevolazione sono quelle individuate ai sensi del DM 236/1989 e del DPR 503/1996, norme che devono essere espressamente indicate nei contratti. È quanto evidenziato dall’Agenzia delle entrate, con la risposta n. 180/2022.

 

Autore: La redazione PERK SOLUTION

Nessuna sanzione al responsabile finanziario per la mancata ricognizione delle società partecipate

La Corte dei Conti Liguria Sez. giurisdizionale, Sentenza 16-03-2022, n. 32, nel pronunciarsi sull’ipotesi di responsabilità sanzionatoria prevista dall’art. 20, comma 7, del TUSP – alla stregua del quale l’omessa analisi annuale dell’assetto complessivo delle partecipazioni societarie detenute e la mancata adozione da parte degli enti locali dei piani di riassetto delle stesse, in presenza dei presupposti di legge, comporta la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da un minimo di Euro 5.000 a un massimo di Euro 500.000, salvo il danno eventualmente rilevato in sede di giudizio amministrativo contabile – ha escluso che la norma sanzionatoria abbia tra i propri destinatari gli organi burocratici dell’ente locale (con particolare riferimento al responsabile finanziario) e, pertanto, la pretesa punitiva possa essere pienamente soddisfatta con l’irrogazione della sanzione amministrativa ai titolari degli organi di governo del Comune.
La Sezione ricorda come il principio di personalità della sanzione imponga che possa essere responsabile di una violazione amministrativa solo la persona fisica cui è riferibile l’azione materiale o l’omissione che integra la violazione, con la conseguenza che, inquadrandosi l’art. 20, comma 7, del TUSP nel medesimo sistema normativo, a dispetto del riferimento impersonale agli “enti locali” anche la sanzione ivi prevista deve necessariamente essere riferita ad una persona fisica. Al fine di poter individuare il soggetto cui la sanzione deve essere riferita, è necessario comprendere a chi spetti l’adozione che non potrà che essere il Consiglio comunale che è “l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo” (art. 42, commi 1 e 2, lett. e) del TUEL), mentre è rimesso alla giunta di svolgere attività propositive e d’impulso nei confronti del consiglio comunale (art. 48, comma 3). Spetta, invece, al Sindaco la competenza a convocare e presiedere la giunta nonché il consiglio, quando non è previsto il presidente del consiglio, così come la competenza a sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’esecuzione degli atti (art. 50, commi 1 e 2).
Gli atti previsti dal comma 1 dell’art. 20 del TUSP, ovvero l’analisi dell’assetto complessivo delle società partecipate direttamente o indirettamente e, ove ne ricorrano i presupposti, il piano di riassetto per la loro razionalizzazione, fusione o soppressione, rientrano tra quelli fondamentali, inerenti “la partecipazione dell’ente locale a società di capitali”, l’art. 42 del TUEL li riserva al consiglio comunale. A nulla possono valere le disposizioni regolamentari dell’ente locale giacché quest’ultimo si limita ad attribuire all’apparato burocratico la materiale redazione dei documenti contenenti le proposte di deliberazione, la cui iniziativa esula, invece, dalle competenze di quello stesso apparato poiché rientrante in quelle degli organi politici e, in particolare, della giunta, cui l’art. 48 del TUEL riserva le attività propositive e d’impulso nei confronti del consiglio comunale.
Il precetto normativo risultante dall’integrazione delle previsioni del TUSP con quelle del TUEL presuppone, inderogabilmente, competenze che costituiscono il proprium degli organi di governo (consiglio e giunta) e che, perciò, non possono essere trasferite ai titolari degli uffici burocratici.
L’esclusione della responsabilità sanzionatoria di cui all’art. 20, comma 7, del TUSP non elimina, naturalmente, l’astratta possibilità che in capo ai titolari degli uffici aventi competenze in materia di società partecipate si configurino, nel caso di condotte riverberantesi sulla mancata adozione, da parte del consiglio comunale, dei provvedimenti di cui all’art. 20, comma 1, la responsabilità disciplinare e, ricorrendone i presupposti, la responsabilità dirigenziale e quella amministrativa risarcitoria, quest’ultima da scrutinare considerando comunque l’apporto causale di altri soggetti, quali il segretario comunale e lo stesso Sindaco. Il primo, infatti, svolge compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell’ente in ordine alla conformità dell’azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti e, ove non sia stato nominato un direttore generale, sovrintende allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e ne coordina l’attività (art. 97, commi 2 e 4, del TUEL) mentre il secondo sovrintende al funzionamento dei servizi e degli uffici.

 

Autore: La redazione PERK SOLUTION

 

Gestione della farmacia comunale mediante società in house

Il Consiglio di Stato, sez. I, 30 marzo 2022, n. 687 ha evidenziato che la gestione di una farmacia comunale – da qualificarsi servizio pubblico di rilevanza economica – può essere esercitata dall’ente, oltre che con le forme dirette previste dall’ art. 9, l. n. 475 del 1968, sempre in via diretta, anche mediante società di capitali a partecipazione totalitaria pubblica (in house), ovvero può essere affidata in concessione a soggetti estranei al comune previo espletamento di procedure di evidenza pubblica in modo da garantire la concorrenza.
La giurisprudenza di questo Consiglio ha esaminato più volte la questione concernente l’ammissibilità di forme di gestione delle farmacie comunali non previste dall’art. 9, l. n. 475 del 1968, poiché, ad esempio, fra le forme di gestione individuate dalla predetta norma speciale non è stato previsto l’affidamento in concessione a terzi. Sul punto osserva la sentenza, sez. III, 13 novembre 2014, n. 5587, che lo stesso legislatore ha previsto forme di gestione del servizio farmaceutico comunale ulteriori rispetto a quelle indicate nell’art. 9, l. n. 475 del 1968 che, dunque, non sono tassative. Ed invero, “non si dubita … che la gestione di una farmacia comunale possa essere esercitata da un comune mediante società di capitali a partecipazione totalitaria pubblica (in house), benché tale modalità non sia stata prevista dal legislatore del 1968 (e del 1991), in coerenza con l’evolversi degli strumenti che l’ordinamento ha assegnato agli enti pubblici per svolgere le funzioni loro assegnate; e non si dubita che la gestione possa essere esercitata anche da società miste pubblico/private (…), con il superamento del limite dettato dall’art. 9 della l. n. 475 del 1968, secondo cui la gestione poteva essere affidata a società solo se costituite tra il comune e i farmacisti. (…) L’affidamento della gestione è peraltro consentito in house a patto che il Comune eserciti sulla società un “controllo analogo” a quello che eserciterebbe su proprie strutture organizzative, nel concetto di controllo analogo essendo peraltro ricompresa la destinazione prevalente dell’attività dell’ente in house in favore dell’amministrazione aggiudicatrice”.
È stato altresì chiarito con la stessa pronuncia che “si deve ritenere che un comune, nel caso in cui non intenda utilizzare per la gestione di una farmacia comunale i sistemi di gestione diretta disciplinati dall’art. 9 della legge n. 475 del 1968, possa utilizzare modalità diverse di gestione anche non dirette; purché l’esercizio della farmacia avvenga nel rispetto delle regole e dei vincoli imposti all’esercente a tutela dell’interesse pubblico. In tale contesto, pur non potendosi estendere alle farmacie comunali tutte le regole dettate per i servizi pubblici di rilevanza economica, non può oramai più ritenersi escluso l’affidamento in concessione a terzi della gestione delle farmacie comunali attraverso procedure di evidenza pubblica. Del resto l’affidamento in concessione a terzi attraverso gare ad evidenza pubblica costituisce la modalità ordinaria per la scelta di un soggetto diverso dalla stessa amministrazione che intenda svolgere un servizio pubblico”.
Peraltro, si ritiene oggi unanimemente che l’assenza di una norma positiva che autorizzi la dissociazione tra titolarità e gestione non crei un ostacolo insormontabile all’adozione del modello concessorio. Con riguardo al profilo afferente alla tutela della salute, l’obiettivo del mantenimento in capo al Comune delle proprie prerogative di Ente che persegue fini pubblicistici può essere garantito – in caso di affidamento a terzi – dalle specifiche regole di gara e, più precisamente, dagli obblighi di servizio pubblico da imporre al concessionario, idonei a permettere un controllo costante sull’attività del gestore e di garantire standard adeguati di tutela dei cittadini. In questo senso, l’impostazione risulta perfettamente in linea con il principio comunitario di proporzionalità, per cui le restrizioni al regime di piena concorrenza sono effettivamente ammesse nei limiti in cui risulti strettamente necessario con l’obiettivo da perseguire (nella specie, la salvaguardia della salute pubblica e del benessere dei cittadini) (Tar Brescia, sez. II, 1 marzo 2016, n. 309).